COMMENTO DI MONIQUE
Pubblico con molto piacere una lettera arrivata da una lettrice. Grazie Monique!
Mi induce a riflettere sul ruolo della famiglia d’origine nel farci diventare grandi come figli, che cosa lasci dentro il nostro bagaglio di vita personale.
Come ci ritroviamo a gestire le relazioni sentimentali; quale consapevolezza abbiamo del peso della stima in noi stessi, e come influisce nella scelta di un partner.
Ciascun partner, spesso senza accorgersene, attiva delle modalità inadeguate, che danneggiano sé stessi e gli altri; pur nella convinzione di aver fregato gli altri. Freghiamo noi stessi ogni volta che trattiamo male e usiamo gli altri, è frutto di un dolore represso e sicuramente mal gestito.
Infine, quante donne purtroppo continuano a buttare via la loro vita facendosi bastare briciole di affetto, investendo enormi quantità di energie personali per non ricevere poco o niente in cambio.
Spero che queste parole di Monique servano a taluni lettori per spostare lo sguardo su di loro, in modo indulgente, un po’ critico, per iniziare un cambiamento sulla rotta di un adeguato nutrimento emotivo e dell’amor proprio.
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OCCHI CON LACRIME COLOR INCHIOSTRO
Monique si guardò intorno soddisfatta: il suo viaggio verso Venezia stava per iniziare. Il fatto che il treno fosse quasi vuoto le faceva presagire che avrebbe avuto la tranquillità che stava cercando. Il vagone era deserto e fuori era ancora buio.
Monique non aveva mai visto Venezia durante le feste natalizie e immaginava che tra luci, riflessi sull’acqua e ombre sarebbe stata un vero spettacolo. Viaggiava da sola, naturalmente. Il suo essere sola era una delle poche certezze della sua vita. Sì, aveva un pezzettino di famiglia, c’era affetto tra di loro ma ognuno aveva i suoi impegni e si incontravano ogni tanto per mangiare insieme e condividere qualche ora. Loro erano una famiglia, lei era un di più.
Monique guardava il libro e il quaderno che aveva portato con sé per ingannare il tempo nel lungo viaggio che l’aspettava.
Poi prese il quaderno, lo aprì e iniziò a scrivere. Si stupì della velocità con cui la penna scorreva sul foglio, le sembrava si muovesse da sola e ricordava come, tanti anni fa, fosse facile per lei scrivere, raccontare emozioni, inventare favole e descrivere ciò che pensava. Negli ultimi anni, invece, i pensieri belli o brutti erano rimasti dentro di lei e le appesantivano le giornate, ora era molto diversa da quella ragazza che scriveva poesie, si emozionava per nulla o quasi.
A volte aveva l’impressione che si trattasse di pigrizia o di apatia: vedeva le parole che le giravano attorno o dentro di lei ma non aveva voglia di dare loro un ordine su un foglio o al computer. Troppa fatica. Non era un periodo tranquillo per lei. Un po’ di depressione, un po’ di tristezza, un po’ il sentirsi sottovalutata al lavoro la portavano a vivere in un’apatia generale, un limbo di movimenti e pensieri in cui si chiudeva come in una nuvola perdendosi dentro serie TV o giochini sul cellulare, con la scusa di usarli per tenere allenata la mente.
In realtà era un modo per non pensare, per non fare nulla e per non scegliere. Da tempo stava pensando che la sua vita era stata un insieme di decisioni sbagliate.
La scelta di smettere di studiare portata anche dall’assurda timidezza che la circondava in continuazione (durante un’interrogazione di storia, dove era preparatissima su tutti gli argomenti tranne che sull’ultimo capitolo spiegato, non aveva avuto il coraggio di dirlo all’insegnante e così, non rispondendo a quell’unica domanda si era rovinata l’interrogazione). Molte altre volte poi si era trovava in difficoltà nel relazionarsi con le altre persone, sentendosi perennemente in imbarazzo o inadeguata alla persona che aveva davanti.
Forse tutti i suoi problemi nascevano dal fatto che da piccola non si era sentita amata dai suoi genitori? Una volta aveva persino chiesto alla nonna se fosse stata adottata. Sessant’anni prima non c’erano tutte le attenzioni e le soluzioni che i bambini moderni hanno ora a disposizione e i genitori erano quello che erano e facevano quello che potevano e sicuramente erano convinti di fare del loro meglio.
Monique è convinta che quel non sentirsi amata dai genitori l’avesse portata a credere di dover meritare l’amore di un uomo, come se l’amore fosse un premio. Motivo per cui le sue storie erano sempre state tutte confuse e sbagliate: sempre con la paura di non essere adeguata all’uomo che aveva accanto, spesso incapace di reagire e disposta a perdonare tutto, anche il tradimento.
Stefano si era detto stupito del fatto di essersi innamorato di una donna brutta. Erano sedici anni che Monique sentiva rigirare quella frase in ogni parte del suo corpo: cosa importa essere innamorate, complici amante della lettura, dell’arte, della buona musica se non si è belle?
La depressione era cominciata da lì.
Inutile che tu faccia bene quella cosa, tanto sei brutta.
Inutile che ti compri quel vestito carino, tanto sei brutta.
Inutile che tu parli dell’ultimo libro che hai letto, tanto sei brutta.
Parole durissime da sentirsi dire, Monique era convinta che le avrebbe avute marchiate addosso per sempre.
In certi momenti sentiva dentro di sé la voglia di urlare, di far vedere a tutti che lei non era così, che lei era diversa, che lei valeva ma poi si guardava allo specchio e la voglia di ribellarsi svaniva.
Lei era brutta. Lei era grigia. Lei non si truccava più. Lei era bassa. Lei era grassa. Lei non si voleva bene quando si riconosceva così e la sua mente la puniva per vedersi così, la faceva diventare goffa, disordinata, sporca, sempre più accartocciata su sé stessa, sempre più lontana dagli altri.
Ogni lunedì, ogni volta dopo un qualche avvenimento lei diceva a sé stessa che quello sarebbe stato il giorno del cambiamento.
Da quel momento in poi avrebbe avuto la casa sempre in ordine, da quel giorno avrebbe iniziato a truccarsi nuovamente, da quel giorno avrebbe iniziato a mangiare meglio…da quel giorno sarebbe diventata un’altra persona.
Sarà mai possibile questo? Con una stoffa rossa non si può fare un vestito a fiori!
Siamo responsabili delle nostre scelte? O sono i momenti a scegliere per noi?
Monique ripensa a quando aveva deciso, e quindi scelto, di entrare a fare parte del gruppo degli educatori in parrocchia.
Aveva un suo gruppo di ragazzini simpatici, sorridenti, impegnati al massimo nelle varie attività che lei proponeva. Si divertivano molto insieme e lavoravano molto bene.
Il gruppo dei grandi, invece, di cui Monique faceva parte era un’altra cosa. Tutto ruotava intorno ad una suora che aveva studiato proprio per dirigere e accompagnare in un cammino di fede giovani menti. Monique ci credeva molto. Era sempre la prima a partecipare alle varie attività, era l’anima creatrice di cartelloni e slogan per fissare e divulgare le cose scoperte insieme. Tutte cose belle e interessanti e, a quei tempi, credevano tutti che quello che stavano vivendo sarebbe stato per sempre.
Suor Mariateresa aveva il suo gruppo di allievi delle scuole medie ed erano loro quelli a cui lei si riferiva in continuazione e che avevano la sua costante e onnipresente attenzione. Monique, essendo più grande di loro, non faceva parte di quel sottogruppo e quindi si sentiva sempre tagliata fuori, inadatta a parlare, a partecipare alle discussioni e le rare volte che cercava di esprimere il suo pensiero non si sentiva all’altezza della situazione e quello che diceva era quasi ignorato. Suor M. era sempre pronta ad omaggiare ed esaltare quelli che facevano parte della sua corte. La scelta di vivere in un gruppo così impegnativo e totalizzante aveva significato per Monique il rinunciare a tutte le amicizie che non ne facevano parte. Nel suo piccolo paese la mentalità non era molto aperta alle novità: se si faceva parte di una realtà, non si poteva vivere in un’altra.
Monique, nel corso degli anni, aveva sofferto per questa scelta perché poi, quando, dopo varie vicissitudini, il gruppo, che in teoria doveva essere così importante per il futuro dei suoi componenti si era frantumato e con lui si erano rotti tutti quei legami che non si erano rivelati poi così solidi e importanti come erano stati portati a credere.
Sarà stato per questo motivo che tutti i gruppi di cui Monique aveva fatto parte le erano stati un po’ stretti? Le dinamiche erano sempre le stesse ovunque, c’era un leader, con il suo entourage che determinavano ogni cosa e tutti gli altri ad accettare le scelte di pochi.
O forse il problema era che Monique, per carattere o per educazione, non era mai stata ambiziosa, non era mai stata una leader con il suo complesso di inferiorità e il suo senso di inadeguatezza sempre ben presenti non ne aveva mai avuto le capacità.
Avere un carattere così poteva bastare a spiegare questa perenne condizione di vita? Che cosa aveva dentro che cosa le era successo per essere come era adesso, come era sempre?
Monique se lo domandava spesso. Vedeva persone sicure di sé, alcune fin troppo, ottenere sempre dei risultati.
Persone sorridenti con personalità così brillanti o addirittura aggressive che non avevano problemi a rapportarsi con gli altri.
Lei era sempre, ancora adesso, quella che si scusava, quella che si faceva da parte se qualcuno doveva passare, quella che si chinava a raccogliere le cose cadute a terra a qualcun altro e aveva anche difficoltà a riprendere le persone che, sul lavoro, commettevano errori.
Si era convinta che a causa della sua tranquillità, del carattere chiuso e del suo modo di dire le cose sul lavoro fosse considerata non attendibile, poco affidabile e non sapeva come cambiare la condizione e anche questo era una cosa che la faceva stare male.
In effetti, un po’ per l’età, un po’ per il suo modo tranquillo di fare le cose, con pochissime iniziative, e, forse complice la depressione, si sentiva veramente la stupida della situazione.
Monique con un sospiro alza gli occhi dal quaderno. Fuori è ancora buio, le piace l’idea di avere ancora tempo per scrivere anche se il treno corre veloce verso Venezia.
Le piace viaggiare in treno. Quando non riesce a leggere chiude gli occhi e lascia che i pensieri prendano la direzione che vogliono. A volte erano fantasie molto piacevoli altre no. Come Luca. Il suo unico grande amore. Sbagliato. Sbagliatissimo. Monique è convinta che se non lo avesse mai incontrato quel maledetto giorno, quando aveva lei aveva sedici anni la sua vita, almeno quella sentimentale, sarebbe stata molto diversa, magari normale. Per ironia della sorte si erano conosciuti l’anno in cui lui si era sposato con Lucia.
Monique non sapeva neppure come fosse iniziata la storia con lui, per anni qualche battuta scherzosa, qualche chiacchiera un po’ più impegnativa quando si incontravano sui vari bus che lui guidava, poi un giorno si erano incontrati da soli, per scambiarsi dei libri, in un luogo neanche troppo isolato, a lato di una strada.
Dopo un po’ di chiacchiere lui le aveva detto: “Senti, io ti voglio bene, tu prendila un po’ come vuoi!” e le aveva dato un bacino sulla guancia. Lei era rimasta in silenzio. Lui aveva capito prima di lei.
Erano passati quasi quarant’anni da quel giorno e da quel 28 dicembre erano iniziate le serate in autobus, chiacchiere infinite, avanti e indietro per le varie tratte dei suoi turni di lavoro. Qualche momento in macchina, abbracciati o tenendosi per mano ascoltando musica, qualche bacio, un po’ di tenera complicità ma mai niente di più.
“Sarà perché non abbiamo mai fatto l’amore che è durato così tanto?” si domandava spesso Monique.
Nemmeno in quella settimana che lui, dopo essersi trasferito in America anni prima, aveva abitato a casa sua, naturalmente dividendo lo stesso letto.
“Fare l’amore con te sarebbe come guidare una Ferrari per una volta e poi tornare alla solita autoritaria”, Monique ricordando questa frase sorrideva sempre: sapeva benissimo la passione che lui aveva per le automobili!
Luca era un uomo particolare, con regole morali tutte sue. Non era bello, occhi marroni di un colore brillante, un sorriso un po’ ironico e un po’ serio. La cosa che piaceva di più a Monique erano i baffi, folti, scuri, morbidi. Dopo tanti anni, erano diventati la favola dell’azienda di trasporti dove lui lavorava, dove c’era Luca c’era Monique. Le battute erano infinite ma a loro non importava. Un collega geloso aveva addirittura informato la direzione che una donna, sprovvista di biglietto, trascorreva dalle tre alle cinque ore su un bus per tenere compagnia all’autista.
Sorridendo al pensiero Monique alzò gli occhi dal quaderno. Il treno scorreva in piena pianura padana. Il sole stava sorgendo e gli alberi lanciavano i loro rami spogli come spilli nel cielo leggermente rosato, sembrava volessero pungere quei nuvoloni neri che impedivano al sole di mostrarsi interamente.
“Accidenti – pensò Monique per l’ennesima volta – Luca è veramente stato l’uomo della mia vita: l’ha trasformata in un disastro e io, in nome di quell’amore assurdo che provavo per lui, glielo ho lasciato fare accontentandomi sempre del poco che mi dava”
Un dato di fatto. L’unica altra certezza nella vita di Monique: i momenti che lui le regalava erano attimi che a lei, ignara di ogni altro amore, si beveva e gustava come fossero un vino pregiato.
Niente sesso, solo qualche giochino, tante chiacchiere, tanta musica ascoltata con le dita delle mani intrecciate. Momenti che in breve tempo erano diventati anni: sempre Luca nella testa e nel cuore.
Sempre lui che le “impediva” di pensare ad un altro uomo, lui che le diceva cose assurde (non posso lasciare Lucia perché lei mi ha salvato la vita quando è morta Giovanna – il suo grande amore dei 18 anni -, io e mia moglie ci siamo promessi di non lasciarci mai per il bene di nostro figlio o mi sto cacciando in una brutta situazione con Emma, aiutami) e lei sempre zitta, sempre presente. Sempre.
“Ma che cosa ha Luca che io non ho?” le chiedeva spesso Federico, collega di Luca, dopo che Monique varie volte aveva rifiutato le sue avance.
Niente. Luca era semplicemente Luca.
“Se non lo avessi mai incontrato la mia vita sarebbe stata diversa?” altra domanda che Monique si poneva spesso soprattutto in questo periodo in cui lei, finalmente, era riuscita a scacciarlo dalla sua vita. Decisione che un po’ le era costata a livello emotivo però, ormai, non trovava più alcun significato nelle sue mail piene di contraddizioni, prive di consistenza e, soprattutto piene di promesse non mantenute. “Basta pensare a “come sarebbe stato bello se…sono quasi quarant’anni che non è!”
La mail che lui le ha scritto quest’anno per Natale, dopo che lei aveva ignorato tutte le altre, l’aveva fatta veramente arrabbiare.
“Passano gli anni ma la mia amicizia per te è sempre presente!” Monique avrebbe voluto rispondere con un “Vaffanculo” tutto colorato di rosso e con tante lucine colorate, invece si era limitata a un laconico: “Ora che lo so il mio Natale sarà sicuramente migliore. Auguri!”. Lui non aveva ribattuto.
Ma come fa un uomo a essere così soggiogato da moglie e figlio? (lui le aveva raccontato dei modi dispotici e terrorizzanti che il figlio aveva nei confronti dei genitori in più occasioni). Per anni le aveva detto che lui viveva in una parte della casa, una specie di cantina, e che i rapporti con la moglie si limitavano a cose di lavoro e poi le aveva tolto l’amicizia su Facebook perché moglie, figlio e suocera lo controllavano.
“Basta! – Pensò Monique – perché devo ancora dedicare tanti pensieri ad una persona che mi ha deluso per anni?”
Intanto il treno è quasi arrivato a Venezia.
“Sono rimbalzata tra i pensieri del passato come una palla da biliardo sulle sponde del tavolo e mi rendo conto che sono rimasta in buca per troppo tempo.”
Monique guardò fuori dal finestrino e un sole deciso le scaldò il viso e la fece sorridere. Qualche nuvola bianca di forma insolita regalava una strana coreografia al cielo azzurro.
“Questi cinque giorni saranno veramente l’inizio di qualcosa di nuovo?” il fatto di aver scritto tutte quelle pagine così di getto, tirando fuori ogni cosa che aveva dentro le sembra un avvenimento promettente.
Uscì dalla stazione e si sorprese di quanta poca gente ci fosse nella piazza. Il Canal Grande era splendente sotto il forte sole, l’aria era fredda ma il cielo di un azzurro privo di ogni più piccola nuvola. Seguendo il percorso contorto che gli aveva fatto fare il navigatore e perdendosi nell’incanto delle calle e dei colori, Monique raggiunge il suo albergo, poco lontano da piazza San Marco.
Non sa quanti ponti, canali, canaletti, ponticelli abbia attraversato ma è contenta perché sta ritrovando un po’ dell’antico entusiasmo da turista che credeva di avere perduto in questi mesi di vita incerta.
Venezia è piena di tanti angoli di colori e di storia e di tante cose belle fatte ad uso e consumo dei turisti, che, fortunatamente, in questo periodo non sono molti.
Monique guarda la fotocamera: riuscirà a fare foto non banali? Ogni angolo di Venezia sarebbe da fotografare ma al pensiero che qualsiasi turista potrebbe fare le sue stesse foto la disturba un po’.
Il ristorante che aveva scelto (praticamente tirata dentro dal cameriere che stava sulla porta ad elencare le leccornie del loro menù) era molto carino, vicino al teatro La Fenice – e questo l’aveva fatta sorridere – un misto di eleganza e di cose comuni appese alle pareti. Un ottimo piatto di spaghetti alle vongole e un bel bicchiere di soave l’avevano preparata ad affrontare un pomeriggio pieno di cose belle sicuramente.
Venezia è un mondo di cose diverse. Luce, buio, arte, acqua, ponti, sporcizia, turisti ammassati nei luoghi d’obbligo e angoli più defilati, ma altrettanto belli quasi deserti.
Monique guardava quei turisti che fotografavano qualsiasi cosa e si facevano selfie davanti a bidoni della spazzatura o alle reti arancioni che delimitano i cantieri. Lei era una maniaca dello scorcio particolare, dell’attenzione al dettaglio, del mettere sempre in evidenza un qualcosa che trasformavano una fotografia nella “sua” fotografia e si divertiva nel vedere che qualcuno, poi, dopo averla osservata, la imitava.
Camminando per le calli senza una direzione precisa i pensieri di Monique si erano un po’ calmati: anche se spesso una strana sensazione di tristezza, o meglio, di vuoto si impadroniva di lei anche se si trovava davanti a un qualcosa di spettacolare e allora le prendeva una smania di muoversi, di andare altrove, di fare, di vedere anche se non aveva ancora avuto il tempo di afferrare cosa stava osservando in quel momento: e i pensieri nella sua testa giravano veloci in maniera vorticosa.
Le sue giornate erano fatte di momenti in cui viveva pienamente quello che stava guardando con la voglia di scoprire ogni suo angolo segreto che si alternavano a momenti di noncuranza per quello che aveva davanti.
Cose belle da fare, da vedere, da fotografare ce n’erano veramente tante intorno a lei. Si concedeva pranzi in bei locali, ricercando quelli con le recensioni migliori: “In vacanza non si bada a spese”, ripeteva spesso a sé stessa e ai suoi amici.
Si era accorta, rispetto qualche anno prima, che ora la stanchezza influiva molto sul suo modo di affrontare la giornata, come si era accorta che le cose che aveva scritto di getto durante il viaggio le avevano fatto bene. Aveva tirato fuori tante cose negative che aveva dentro che rischiavano di fare morire altre cose più positive. Il fatto di averle viste scritte le aveva rese più definite, erano più comprensibili anche per lei e magari diventavano risolutive.
Non che avessero risolto tutti i suoi problemi anche in questi giorni aveva avuto le sue crisi di goffaggine, momenti in cui lei stessa si era definita stupida.
A Venezia è molto facile vedere coppiette innamorate, giovani o meno giovani, che camminano tenendosi per mano o che si scambiano tenerezze e, da un po’ di anni, Monique alla loro vista aveva un piccolo colpo al cuore, un dolore che le partiva da dentro, un senso di vuoto enorme e si domandava perché lei non aveva avuto una storia d’amore normale e duratura? La risposta che si dava era sempre quella: con il suo carattere così introverso, poco propensa al dialogo, la mancanza di senso critico, non aveva molto da offrire ad un uomo. A parte la sua bruttezza, naturalmente.
Una volta un uomo, una delle sue storie passeggere (anche perché lei aveva capito che più che ad una storia d’amore, Massi era alla ricerca delle sensazioni che provava in gioventù) le aveva detto che lei non chiedeva nulla ma pretendeva tanto dalla persona che aveva accanto.
Monique dava la colpa della sua solitudine sentimentale sempre alla scelta che aveva fatto riguardo al gruppo. La suora aveva instillato in loro il fatto di dover aspirare a cose grandi, perfette, non accontentandosi di rapporti qualsiasi.
Gli altri componenti del gruppo erano più giovani di lei e forse per questo si erano salvati (qualcuno era entrato in convento, qualcuno si era sposato sempre all’interno del gruppo e poi avevano divorziato, qualcuno, da grande, si era sposato con compagni di lavoro). Quarantacinque anni fa le situazioni erano molto diverse rispetto il comportamento dei giovani moderni.
Non che Monique avesse mai avuto miriadi di pretendenti, qualcuno, ma erano più giovani di lei di qualche anno e allora lei aveva lasciato perdere…” Chissà, se avessi sposato Giovanni o Francesco – ad esempio – come sarebbe stata la mia vita?” era una domanda che ogni tanto le girava tra i pensieri.
Poi era entrato Luca nella sua vita e ogni altro uomo era diventato invisibile per lei.
Monique si sentiva un po’ a disagio a pensare alla sua vita sentimentale e ai suoi comportamenti avuti (magari anche poco…etici), con qualcuno proprio perché non aveva altro e allora prendeva l’amore (diciamo così) e tutto quello che ne consegue con chi e quando poteva, nella speranza che quell’incontro momentaneo potesse diventare qualcosa di più importante. Non era contenta di questi comportamenti ma la vita non le aveva permesso altro…
Scelte obbligate ma sempre scelte!
Il lungo scritto fatto in treno sembrava avesse risvegliato in Monique la voglia di ricordare, di mettere in luce le cose nascoste e cercare di capire le cose sbagliate e le aveva lasciato una strana malinconia.
Pensare troppo…era una cosa che in questi giorni le veniva facile…e il rievocare certi momenti la facevano tornare quella che era allora …La faceva sorridere ancora il ricordo della sera in cui Gianluca le aveva dato il suo primo vero bacio (era il 19 dicembre 1977) nel portone di casa. Lei si era ritratta poco dopo, un po’ confusa e un po’ spaventata e con il terrore che il vicino di casa li avesse visti e andasse a raccontarlo poi a sua madre…La cosa era finita lì, lei e Gianluca erano troppo amici per diventare qualcos’altro. Lui era molto bello e simpatico e aveva una marea di ragazzine che lo guardavano adoranti…
Un giorno lui aveva invitato Monique ad andare al mare, dove ci sarebbero stati tutti i loro amici e altri amici di Gianluca che lei non conosceva. Lei era emozionata, arrivare in spiaggia con Gianluca doveva per forza significare qualcosa…peccato che lui voleva solo presentarle la sua fidanzata, Carlotta, che dopo molto anni sarebbe diventata sua moglie. Gianluca, che poi se ne era andato per un tumore a neanche cinquant’anni. Ogni tanto Monique pensava a lui, a tutte le cose fatte insieme, a tutte le chiacchierate…crescendo poi, si erano persi, ma Monique era convinta che il bene voluto non sparisce, rimane sempre nel cuore di chi si è voluto bene.
Anni dopo, grazie ad amici comuni, aveva conosciuto Andrea, in una vacanza in Provenza (e, naturalmente in sottofondo c’era sempre Luca). Si erano ritrovati da soli a passeggiare per Arles e avevano iniziato a chiacchierare…dopo qualche mese si erano messi insieme. Per Andrea lei era la prima donna in assoluto (quindi tanti suoi comportamenti erano da capire e giustificare) e, per Monique la prima vera storia importante. Andrea aveva alle spalle una vita famigliare disastrosa, figlio illegittimo che il padre, esponente politico importante nella città di Genova, non aveva potuto riconoscere e di una mamma che, per questo motivo, era stata esiliata dalla famiglia ed era morta giovanissima per un tumore allo stomaco. Andrea, fortunatamente, aveva come amici una coppia di anziani che gli erano sempre stati vicini e gli avevano impedito di sentirsi troppo solo.
La loro storia era durata tre anni (ma i momenti di chiacchiere con Luca continuavano ad esserci) e sembrava destinata a durare ma poi Andrea, ad una competizione sportiva aveva conosciuto Alessia e si era invaghito di lei, nonostante abitasse a Verona e fosse sposata con Alessandro e si era messo con lei. Anni dopo Andrea aveva confidato a Monique che lasciarla era stato l’errore più grande che lui aveva commesso (anche perché la storia con Alessia lo aveva distrutto) ma Monique lo aveva guardato dubbiosa: “Diceva così solo perché in quel momento era solo?” anche perché lui non riusciva o non ci teneva ad avere un rapporto continuativo con lei. Ogni tanto la cercava, con la scusa dei suoi studi sui massaggi, ma Monique aveva deciso che un rapporto così non aveva senso e non aveva più risposto ai suoi messaggi.
Dopo Andrea ci fu Samuele.
Samuele confuso.
Samuele debole.
Samuele vittima.
Samuele marito.
Samuele padre.
Samuele amante.
Samuele separato.
Samuele traditore (chi la fa l’aspetti?) dice la saggezza popolare.
Samuele che la chiamava “scricciolo” e che intanto continuava ad andare a letto con l’ex moglie.
Samuele bevitore.
Samuele morto per tumore a 46 anni.
Samuele dolore.
Samuele debiti lasciati.
Samuele…rimpianto di non avere tanti ricordi.
Monique aveva cancellato quasi tutto dei suoi tre anni con lui e quello che ricordava era quasi sempre negativo.
Una sera, tornando dal lavoro, era andata nella casa che stavano finendo di arredare per viverci insieme convinta di trovarlo a dormire lì, invece il letto era vuoto. Dolore grande. Lui si era giustificato dicendo che aveva dormito dalla moglie perché le figlie non lo avevano lasciato andare via (verità?)
Monique avrebbe dovuto già capire ma non lo aveva fatto, in fondo Samuele era un bravo papà, pensava…
Ancora una volta lei aveva scusato, aveva capito e aveva creduto alle sue parole.
Ricordava le lacrime negli occhi della mamma di Samuele nel ringraziarla di averle restituito il figlio, perché la nuora gli aveva imposto di rompere ogni rapporto con la famiglia di origine.
Uno stupendo bimbo biondissimo aveva attirato lo sguardo di Monique e interrotto i suoi pensieri.
Seduta al tavolino del bar all’angolo in campo Santo Stefano, guardava il suo bicchiere di spritz arancione e pensava ad un altro tavolino, e un altro bicchiere.
Un semplice bicchiere a calice e una bottiglia di spumante dolce. Una bottiglia e un bicchiere, posati sul tavolino bianco, erano simboli della sua debolezza e della sua, presunta, buona volontà, che la sera prima si era bevuta in completa solitudine. Senza un motivo particolare e senza un dolore speciale da dover dimenticare. Non le piaceva ricordare quei momenti, però, facevano parte di lei.
Sorrise, prese la cartina e iniziò a riflettere su cosa andare a vedere dopo quella sosta: i suoi pensieri potevano aspettare…Monique sapeva che sarebbero tornati.
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Ringrazio tantissimo Marisa Falco per la foto.


